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Il target della Rivista è sempre stato la divulgazione, offrire nuovi aggiornamenti, suscitare utili confronti, evidenziare argomenti controversi con il contributo di professionisti che più di altri hanno approfondito le tematiche in discussione.
Credo che negli anni questi obbiettivi siano stati raggiunti, e che il prestigio della Rivista sia ormai riconosciuto.
La direzione editoriale inizialmente pensata e indicata da Costantino Bianchi, indiscusso protagonista della divulgazione scientifica oftalmologica in Italia, viene ancora una volta percorsa, confermata e, con convinzione, condivisa.
Con uno sguardo verso il panorama oftalmologico internazionale la Rivista si è aperta a nuovi orizzonti scientifici attraverso il proficuo colloquio con molti apprezzati colleghi, universalmente riconosciuti come leader.
Lo squarcio da poco aperto nel mondo delle altre specialità mediche, che presentano campi di interesse comune, contribuisce a rendere la Rivista ancora più accattivante, ancora più completa.
Questi ampi orizzonti sono percorribili ed esplorabili grazie alla lungimiranza culturale della direzione della Rivista che ha appoggiato e, con condivisione, avallato questi fecondi percorsi interdisciplinari.
Altrettanto lusinghieri e di largo interesse sono i contatti che la Rivista sta intessendo con il mondo istituzionale, verso il quale è sempre tanto difficile rapportarsi.
I punti di forza della Rivista sono stati e restano tuttavia gli articoli ed il focus su “argomenti caldi”. Tanti colleghi inviano il loro contributo che con soddisfazione pubblichiamo, sicuri di rendere un servizio efficace all’interscambio di idee ed opinioni utili ai nostri lettori.
Il giornalismo scientifico è attività tanto ardua quanto gratificante. Oltre a diffondere e promuovere approfondimenti su specifiche tematiche, il suo più elevato intento è la discussione di condotte medico-chirurgiche che risultino infine efficacemente condivise a favore della salute dei nostri pazienti.
La Redazione di Oftalmologia Domani attende i vostri contributi ed è sempre aperta alle vostre richieste con sincera e favorevole accoglienza.
Buona lettura.
Corinne Bonnet
Preside della Classe di Lettere e filosofia della Scuola Normale Superiore, Ordinario di Storia delle religioni, Pisa
Corinne Bonnet è una tra le più importanti studiose del mondo antico, in particolare delle religioni che si iscrivono nel tempo, nello spazio e nei contesti socio-politici i più diversi. I suoi studi si sono rivolti in particolare e con attenzione verso le relazioni culturali intercorrenti tra le diverse civiltà del Mediterraneo antico, da Tiro a Cartagine, da Atene a Roma, da Babilonia ad Alessandria, considerando la vita cultuale di quelle popolazioni e le relative rappresentazioni del divino, non senza evidenziarne le specifiche creatività identificative. Ha studiato all’Università di Liegi ed insegnato a Namur in Belgio; in seguito ha svolto la sua attività accademica nelle Università di Cosenza, Roma Tre, al Pontificio Istituto Biblico di Roma e a Toulouse in Francia prima di approdare nel 2014 definitivamente alla Scuola Normale Superiore di Pisa. È dottoressa honoris causa delle Università di Lausanne e Erfurt, corrispondente straniera dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Paris e ha diretto, fra il 2017 e il 2023 a Toulouse l’ERC Advanced Grant. I suoi studi sulle civiltà antiche hanno portato tra l’alto alla conoscenza degli innumerevoli appellativi assunti nelle iscrizioni dalle divinità greche e semitiche, registrando oltre 25.000 attestazioni in tutto il Mediterraneo dal 1000 a.C. al 400 d.C.
Con grande cordialità e disponibilità Corinne Bonnet, da poco tempo Preside della Classe di Lettere e Filosofia della Scuola Normale Superiore di Pisa, ha accolto favorevolmente il mio invito. Troverete questa intervista di grande interesse, particolarmente stimolante, di largo respiro culturale.
D: L’influenza delle grandi Religioni ha sicuramente inciso culturalmente sulle popolazioni piuttosto che il pensiero dei maggiori pensatori, filosofi e scienziati. Le Religioni, più di ogni teorema socio-filosofico, hanno l’aspirazione ad “educare” a “formare” i fedeli verso un fine universale. Gli insegnamenti religiosi dovrebbero favorire la pacifica convivenza tra i popoli attraverso precetti e limitando gli eccessi delle libertà individuali per fini trascendenti, universali. Dopo duemila anni di cristianesimo e millequattrocento di Islam, citando le Religioni che hanno il maggior seguito di fedeli, circa 4 miliardi, i risultati sembrano essere deludenti, certamente non gratificanti. Qual è il suo pensiero a riguardo?
R: La prima cosa da tenere presente è che il nostro modo di pensare le religioni è molto segnato dall’esperienza delle religioni monoteistiche che caratterizza le culture europee. Credenti o meno, siamo tutti cresciuti in questo contesto. Ora, se le religioni monoteistiche – giudaismo, cristianesimo e islam per menzionare quelle che annoverano nel mondo il maggior numero di devoti – sono orientate verso un orizzonte universale e verso la salvezza, diverse erano invece le religioni politeistiche dell’Antichità, di cui mi occupo e che sono oggetto del mio insegnamento alla Scuola Normale di Pisa.
Nel mondo greco o romano, fenicio e mesopotamico, egizio o anatolico, le divinità erano numerose e fortemente radicate nel contesto locale: una città, una regione, un regno… ecc. Le figure divine si spostavano, viaggiavano e potevano anche essere condivise da comunità geograficamente distanti. Zeus, ad esempio, è un dio attestato in tutto il mondo mediterraneo, con diverse sfaccettature ed epiteti, assumendo declinazioni diverse a seconda dei differenti contesti locali: per cui egli è uno e plurale al tempo stesso.
Le religioni antiche erano fondate sull’interazione fra esseri sovrumani e mortali, sulla pragmatica cultuale, quindi sul “fare” più che sul “credere”. La dimensione morale non aveva a che vedere con la trascendenza, in verità. Dovere degli uomini era quello di onorare gli dèi secondo le tradizioni ereditate dai padri (il famoso mos maiorum dei Romani) senza mancare loro di rispetto (il che avrebbe costituito un’empietà), ma anche senza sfociare nell’eccesso della superstizione.
La “religione” richiedeva un atteggiamento equilibrato nei confronti degli dèi, un tratto che la storia recente sembra smentire. Il successo ottenuto dai monoteismi sin dalla tarda antichità è l’esito di un processo molto complesso, che scompagina la relazione tradizionale fra uomini e dèi. Se i politeismi si basavano su una sorta di “collaborazione” all’interno di una gerarchia di potenze chiara, con l’avvento del monoteismo si entra in una dimensione diversa che è quella della fede, della ricerca di un rapporto esclusivo, totalizzante, vincolante con la divinità; un rapporto che coinvolge il presente e il futuro, e incide su tutti gli aspetti della vita e della morte, fino alla fine del mondo. Queste trasformazioni, che avrebbero dovuto aprire orizzonti universali e morali nuovi, si sono rivelati drammaticamente foriere di tensioni, conflitti e intolleranza.
Jan Assmann, il famoso egittologo tedesco e grande specialista di storia culturale, ritiene che in questo consista esattamente “il prezzo del monoteismo” ovvero nella postulata distinzione tra religione vera e religioni false distinzione (che fa risalire a Mosè), che apre la via al concetto di guerra santa.
D: Secondo la World Book Encyclopedia “Non c’è mai stato un popolo che non avesse qualche forma di Religione”. William James Durant, autore tra l’altro della Storia della Civiltà (The story of civilization) di ben 32 volumi, che scrisse in cinquant'anni con l'aiuto della sua compagna Ariel, afferma che “La guerra è una delle costanti della storia”. Guerre e Religioni sembrano indissolubilmente legate, interdipendenti. Qual è la sua opinione? Quale la relazione esistente? I suoi studi cosa suggeriscono a proposito? Perché invece di essere foriere di pace le Religioni possono essere la causa o costituire il terreno favorevole per fomentare nuove guerre?
R: È vero che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non sembra esserci un popolo che non avesse qualche forma di “religione”, se con questa parola intendiamo una forma di relazione fra gli umani e delle entità sovrumane, oggetto di attenzioni perché considerate capaci di agire nel mondo e sul destino degli uomini.
Esistono però tante forme di “religione” e non solo quelle che ci sono familiari. Ad esempio, presso i Kulung del Nepal, una società tribale dell’Himalaya, non ci sono né dogmi né fede, né templi né statue, né libri sacri, né sacerdoti, né è rilevabile un discorso sull'aldilà, o nozioni di colpa o di merito. Riconoscono soltanto l’esistenza di spiriti o demoni derivati dalle anime dei defunti, a cui non vengono rivolte preghiere o altri segni di devozione. Questi “spiriti” non hanno nomi e anzi occorre evitare di pensare a loro, perché questo li fa esistere con degli effetti per lo più nefasti per gli uomini.
Presso gli Hopi, nell’Arizona, esistono fra 350 e 400 “spiriti sacri”, chiamati Katsinam che sono invisibili e vivono nelle montagne e presso le fonti. Essi hanno il potere di proteggere la vita e di portare la pioggia. Sono maschi e femmine, bambini, adolescenti e adulti. Fra di loro, circa 30 sono i leaders perché sono apparsi in tempi molto remoti. Da luglio a dicembre, si trovano nel mondo di sotto, mentre da fine dicembre a metà luglio vivono sulla superficie della terra e fanno delle visite agli Hopi, che li celebrano con delle feste durante le quali i Katsinam sono raffigurati sotto forma di pupazzi con diversi attributi.
In altre parole, grazie all’antropologia e all’etnologia, siamo in grado di capire quanto sia diverso l’atteggiamento delle società di oggi e di ieri nei confronti delle “religioni”. Il nostro presente ci conduce a guardare con inquietudine al nesso fra religione e guerra, che è del tutto reale, ma dimentichiamo che, se gli uomini si rivolgono a entità potenti, sovrumane, che sono stati essi stessi a concepire e costruire, è perché in esse trovano aiuto, conforto, fiducia, speranza nel rivolgersi a dèi, spiriti, demoni, angeli, santi...
La religione, pur essendo nei fatti una costruzione umana e culturale, è una risorsa per gli uomini. Li aiuta ad affrontare le difficoltà e incertezza della vita; la religione produce anche solidarietà e condivisione. Non solo la violenza che vediamo ogni giorno nei media.
D: Dopo la sua laurea e il dottorato all’Università di Liegi, i vari incarichi in Belgio, Francia, Germania, negli Stati Uniti e in Italia, i rapporti di collaborazione con Università di Lausanne, Erfurt, Münster e Tubinga, dal gennaio 2024 è docente alla Scuola Normale Superiore di Pisa di Storia delle Religioni Antiche e, dal 16 luglio 2024, anche Preside della Classe di Lettere e Filosofia. Cosa ha favorito questa rinnovata scelta italiana e, in particolar modo, l’insegnamento alla Normale di Pisa?
R: Ebbene, a dire il vero, non immaginavo di tornare in Italia, ma i colleghi della Scuola Normale mi hanno proposto di venire a insegnare, in questa istituzione davvero prestigiosa, la materia a cui ho dedicato tanti anni di studi e di ricerca: la storia delle religioni. Non potevo che accettare.
Mi sembra una bellissima missione e l’ho accettata con entusiasmo. Ho trascorso vent’anni splendidi all’università di Tolosa, in Francia, fra il 2003 e il 2023, e non è stato facile lasciare il mio posto lì, ma sono molto legata all’Italia e sapevo di trovare alla Normale studentesse e studenti molto bravi e interessati a questa nuova materia, che apre degli orizzonti comparativi molto stimolanti, fra passato e presente, fra diverse culture et società. Non sono rimasta delusa arrivando a Pisa: gli allievi della Normale sono eccezionali! Come lo sono anche le colleghe e i colleghi con cui collaboro. Mi ritrovo quindi a lavorare in un contesto estremamente piacevole e ricco di spunti. Inizierò il mio incarico di Preside della Classe di Lettere e Filosofia il 1° novembre e mi sto quindi preparando, in questi giorni, a una nuova avventura.
D: La Scuola Normale Superiore di Pisa si conferma tra i primi 200 atenei al mondo e tra le posizioni di vertice in Italia. I dati si riferiscono all’anno accademico 2020/2021 e sono di World University Rankings 2024, una delle più accreditate classifiche internazionali curata da THE - Times Higher Education, rivista britannica indipendente e specializzata nella valutazione e nella comparazione dei sistemi universitari internazionali che censisce 1.907 università in 108 paesi e regioni. Cosa rende tanto esclusivo l’insegnamento alla Normale? E cosa manca ancora alle Università italiane per ambire i primi posti dominati dalle Università di Oxford, Harvard, Cambridge, Stanford e dal MIT, Massachusetts Institute of Technology?
R: Devo confessare che sono abbastanza critica sulle classifiche – i ranking come si dice – delle istituzioni universitarie. Si basano su criteri che non sono sempre rilevanti e che danno un grande peso alle scienze dure, mentre noi, nelle scienze umanistiche, abbiamo pratiche diverse, che rimangono in parte ignorate dalle classifiche. E poi questi ranking hanno altri limiti evidenti: si valuta un’istituzione come se fosse tutta allo stesso livello, mentre sappiamo tutti che, ovunque, ci sono dei settori più forti e altri che lo sono di meno; oppure gruppi di ricerca molto produttivi in alcuni anni e meno in altri, per ragioni puramente contingenziali. L’eccellenza, visto che è quello che si prova ad valutare, in realtà si trova ovunque e la forza di un’istituzione è proprio la capacità di dare a ciascuno una possibilità di emergere.
Alla Scuola Normale si entra dopo avere superato un concorso molto selettivo. Ho seguito attentamente le prove quest’anno per la prima volta e ho visto quanto siano preparati coloro che riescono. Ecco, a mio parere, nella selezione iniziale sta la prima chiave del successo della Normale. Entrano da noi giovani donne e uomini che, dopo la maturità o anche nel corso degli studi liceali, si sono preparati a fondo per superare il concorso. Una volta diventati allievi, si stimolano a vicenda – ed è molto importante in questa fase sollecitare la sinergia, piuttosto che la competizione. Seguono dei corsi concepiti per essere in presa diretta con la ricerca attuale, possono ascoltare tanti colleghi invitati, partecipare a workshop, conferenze, insomma cominciare a muovere i primi passi nella ricerca e trovare la propria strada, facendo anche leva sulla loro sensibilità all’arte e alla musica.
Quanto alle Università italiane, sono, mi sembra, comunque di ottima qualità. Che sia Pisa o Bologna, Roma o Padova, Napoli o Palermo, sono università che, nel settore delle scienze dell’antichità, formano dei giovani brillanti che trovano spesso posti prestigiosi anche all’estero. Decisamente da migliorare urgentemente sarebbe il peso delle procedure, della gestione, dell’ammnistrazione che è esorbitante e che finisce per asfissiare i colleghi, riducendo il tempo da dedicare alla didattica e alla ricerca. Su questo piano l’Italia dovrebbe veramente fare meglio.
D: Perché oggi, in questo mondo ipertecnologico, proiettato verso processi sempre più automatizzati dominati dall’intelligenza artificiale ha ancora senso e assume una valenza inalienabile lo studio della filosofia? Quale contributo può averne la scienza medica? E’ vero che per essere grandi scienziati bisogna essere prima di tutto grandi pensatori? Nell’Antichità i rapporti tra filosofia e medicina erano così stretti da rendere difficile separare le due discipline. Essere un buon medico era imprescindibile dall’avere una mente filosofica. Queste due discipline si sono progressivamente separate; la filosofia è diventata scienza dello spirito e la medicina scienza della natura. Negli ultimi anni si è resa evidente nel mondo la tendenza della filosofia a trasformarsi da modalità di pensiero teorico ad aiuto nell’affrontare i problemi concreti dell’esistenza. E’ quello che comunemente si dice “pratica filosofica”. Il “counseling filosofico” dalla fine degli anni Novanta ha affiancato ormai la psicologia per discutere e dare risposte ai problemi dell’umanità. La tendenza alle super-specializzazioni in medicina ha portato alla progressiva perdita dei principi etici con crescente rapporto meccanicistico verso il malato. Del resto già Ippocrate scriveva: “Il medico che si fa filosofo diventa pari a un dio”. (Iatròs philòsophos isòtheos). Vuole riferire ai nostri lettori la sua chiave di lettura su queste tematiche?
R: Lo studio delle materie umanistiche mi sembra essenziale per pensare la complessità del mondo nel quale viviamo, ivi compresa quella insita in ogni singolo individuo. Un medico che fa una diagnosi deve tenere conto, se non sbaglio, non solo del quadro medico, ma anche della persona, della sua psicologia, della sua capacità di resilienza. Non siamo soltanto un insieme di molecole. “La natura dell'anima è un segreto per l'uomo”, scrive Lucrezio nel De rerum natura. Sono convinta che le scienze dure e le scienze umanistiche debbano dialogare, mentre invece si ha l’impressione che facciano di tutto per allontanarsi. L’iperspecializzazione, in medicina come in altri settori della ricerca, induce una perdita di senso di quello che studiamo.
La citazione di Ippocrate è interessante perché mette in evidenza il fatto che il medico non sia solo un “tecnico” che guarisce ma anche un filosofo, amante della saggezza, che dispone di una competenza più globale. Come faceva Socrate, non ci si deve accontentare di conoscere la superficie delle cose, ma si deve scavare, occorre porsi domande difficili, cercare di superare i suoi limiti pur risconoscendo quelli delle proprie conoscenze.
D: Come ultima domanda vorrei che lei formulasse delle possibili linee di sviluppo nel campo delle ipotesi, traendo ispirazione dalla storia dei popoli, su quali potrebbero essere le prospettive future per i grandi conflitti che stiamo vivendo. Le organizzazioni internazionali sembrano aver perso autorevolezza nel delineare principi, tracciare condotte comuni per l’umanità, nella capacità di fermare i conflitti tra i popoli. Quali le possibili strade d’intesa? Il dialogo interreligioso potrebbe essere una soluzione, aprire nuovi orizzonti per arginare i nuovi conflitti? Il progetto per un'etica mondiale “Weltethos” proposto inizialmente dal teologo cattolico svizzero Hans Küng si basava sull’etica della reciprocità, sulla “Regola d'oro” che poneva le basi sulla nonviolenza, sulla solidarietà, tolleranza ed uguaglianza. Dal 28 agosto al 4 settembre del 1993 a Chicago i delegati di diverse Religioni formularono un “codice etico” che fosse corrispettivo della Dichiarazione universale dei diritti; sembra un’eternità. La nascita del Parlamento delle Religioni mondiali, istituito nello stesso anno, è considerato da alcuni l’inizio formale del dialogo interreligioso. Quali passi in avanti sono stati fatti da allora? Ci sono prospettive di speranze per il futuro?
R: Questa è una domanda difficile e impagnativa, perché mi porta lontano da quello che so fare, cioè leggere i testi e interpretarli, confrontare testi e immagini, o tracce della cultura materiale, praticare la comparazione fra diverse culture per quanto riguarda le pratiche e rappresentazioni religiose... ma immaginare cosa diventerà il mondo, alle prese con una conflittualità inedita e una violenza che nessuna regola riesce più a arginare, è un compito estremamente complesso e delicato.
Posso rispondere come cittadina, ma non credo che lo studio delle religioni antiche sia in grado di suggerire delle soluzioni, se non qualche idea del tutto banale, come quella di favorire il dialogo e quindi la tolleranza.
Vediamo intorno a noi come sia la politica a guidare il mondo, e non l’etica. È il potere ormai, geopolitico e economico, che determina l’andamento della storia. Siamo di fronte alla più grande sfida ecologica che l’umanità abbia mai dovuto affrontare. Siamo sull’orlo del baratro, eppure stiamo spendendo milliardi per le armi, quando mancano le risorse per proteggere la biodiversità o prendersi cura dei territori così fragili di fronte ai cambiamenti in atto. Forse l’unica via che intravvedo è una partecipazione attiva dei cittadini ai processi decisionali, mirata al benessere collettivo e non allo strapotere di alcuni. Dovremmo ribellarci contro questa tendenza all’autodistruzione in atto e le religioni, che si fondano sul rispetto dell’uomo e della natura, certamente potrebbero essere più proattive su questa strada. I codici etici non devono venire dall’alto, ma dal basso, dalle persone, dalla società, bottom up, come si dice, e i giovani, credenti o meno, che richiedono con forza un atteggiamento diverso nei confronti di tutte le forme di vita che ci circondano (animali, vegetali...) indicano, a mio parere, l’unica strada percorribile.
La ringrazio vivamente a nome del Direttore Antonello Rapisarda e di tutta la Redazione per questa esclusiva intervista che ha concesso ad Oftalmologiadomani.it. Sono sicuro dell’accoglimento favorevole e positivo da parte dei nostri lettori.